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Ebbene, posso dire soltanto che non appena fui colpito da quel raggio-fumo, provai una sensazione simile. In più mi sentii privo di forze, e ogni tentativo per rialzarmi mi costava un’insopportabile fatica.
Intanto i due nanerottoli avanzavano e si fermarono di lato a due metri di distanza da me, dov’era caduta la mia piccozza. Riuscii a rotolare su un fianco e allora vidi uno di essi chinarsi a raccogliere l’oggetto che era più alto di lui. Fu così che potei osservare distintamente la sua "mano" verde. Essa aveva otto dita, quattro delle quali erano opponibili! Non era una mano: era una zampa con le dita senza artigli. Notai anche che il petto dei due esseri vibrava; come quello di un cane, ansante dopo una lunga corsa.
Facevo sforzi inauditi per rialzarmi, e alla fine, riuscii a mettermi seduto. Ma dovevo puntare a terra le braccia per non ricadere disteso. Intanto, i due erano giunti sotto il disco. Li vidi arrampicarsi con lentezza, ma sicuri, fino alla fenditura rocciosa e quindi scomparire dietro il disco stesso, il quale si trovava incastrato in posizione quasi verticale.
Passarono ancora pochi minuti, quindi lo strano oggetto si sollevò nell’aria, disincagliandosi di scatto dalla roccia. Una cascata di pietre e terriccio scese fino nel greto. E fu questo l’unico rumore che ruppe il silenzio di quel luogo solitario. L’acqua del torrente in magra scorreva senza rumore fra i sassi.

Il disco restò immobile nell’aria, come un enorme "gong" sospeso ad un capo. Ne vidi distintamente l’orlo tagliente a quattro o cinque metri da me, e per un istante fui preso dal terrore che scendesse per tagliarmi in due come un verme.
Non sono certo, ma credo di aver urlato con tutte le mie forze; sono certo però che feci ogni tentativo per alzarmi e fuggire. Il risultato fu che caddi di nuovo, supino e dolorante.
Il disco intanto si era inclinato leggermente e allontanato dalla verticale. Poi rimpicciolì d’un tratto e quindi scomparve del tutto. Subito dopo fui investito da una tremenda ventata (era il risucchio d’aria?) che mi fece rotolare al suolo e mi riempì gli occhi di polvere. Finii contro i sassi del torrente e là rimasi per un tempo non apprezzabile. Infine riuscii a mettermi di nuovo seduto. Fu allora che guardai il mio orologio da polso. Erano le 9,14.
Ma su soltanto verso mezzogiorno che fui in grado di tornare in paese, nel frattempo, avevo anche dormito un’ora. Mi sentivo le ossa rotte e le gambe fiacche e tremanti, come dopo una sbornia potente. Cercai nel mio sacco il termos del caffè. Non mi sorpresi di trovarlo rotto in pezzi, ma quello che mi sorprese fu di non trovare alcuna traccia dell’involucro metallico. Così pure erano spariti la mia forchetta di alluminio e un barattolo dello stesso metallo che conteneva la mia colazione fredda. Il caffè aveva inzuppato ogni cosa, incluso un pacco di carte con gli schizzi della regione che usualmente portavo con me.

Dovetti accontentarmi di mangiare il pane inzuppato di caffè e di buttare via il salame e il resto. Debbo dire infine che cercai inutilmente la mia piccozza che in quel momento mi sarebbe stata molto utile come bastone.

Alle 14 giunsi a Raveo e andai a letto. Dissi alla padrona della locanda dove alloggiavo che ero caduto da una roccia ed ella mi ribatté che ciò mi stava bene, poiché era ora che la smettessi di andare a raccogliere sassi (mi conosce da 35 anni, fin da quando ero ragazzo). Il mattino seguente mi armai di un’altra piccozza e - lo confesso - di una rivoltella, e tornai sul posto. Naturalmente non c’era nessuno. Salii fino alla fenditura, poiché pensavo che i due vi avessero buttato la mia vecchia piccozza alla quale ero affezionatissimo. Ma non trovai nulla.
Ora penso che quel mio vecchio arnese si trovi in un museo di un altro pianeta. Mi auguro che qualcuno lassù cerchi di interpretare i segni incisi nel manico che non sono altro che il mio nome e un motto alpinistico con un paio di stelle alpine stilizzate e un’aquila. E mi auguro che stiano stillandosi il cervello per capirli.

Finisco col dire che in quel tempo cercai di interpretare la mia avventura in vari modi ma tutti estranei ai dischi volanti o ad altro apparecchio di origine extraterrestre. Dapprima pensai che il "disco" fosse un apparecchio sperimentale degli Alleati che in quel tempo occupavano in Friuli l’aeroporto di Campoformido. Successivamente pensai a un apparecchio di origine russa. Infine a una macchina appartenente a qualche civiltà sconosciuta ancora nascosta nel Mato Grosso o in altra regione terrestre ancora inesplorata. Le più assurde ipotesi potevano adattarsi alla mia straordinaria avventura. Ma nessuna era soddisfacente, poiché nessuna poteva giustificare la presenza di quei due omuncoli.
Qualunque altro, al mio posto avrebbe deciso però l’unica cosa sensata da farsi e cioè quella di tacere dell’accaduto con chicchessia. Cosa che feci coscientemente. Non avevo alcun desiderio di essere considerato un pazzo visionario o peggio, e credo che nessuno possa darmi torto.
Due mesi più tardi mi imbarcai per New York. Durante la traversata udii per la prima volta parlare dei dischi volanti avvistati da Arnold Kenneth. Soltanto allora compresi di aver visto un disco volante.
Durante i miei cinque anni di permanenza negli Stati Uniti seguii con interesse più che plausibile lo svolgersi di tutta la storia dei "Flying Saucers" e nel 1950 mi decisi a raccontare la mia avventura a due persone di mia fiducia che possono testimoniarlo in ogni momento e delle quali ho dato l’indirizzo alla presidenza del Centro Studi Clipeologici che ha voluto gentilmente pubblicare il mio racconto.

Nel 1952, prima di tornare in Italia, lessi un articolo sulla rivista "L’Europeo" sul libro dell’americano Scully, il quale parlava di due dischi volanti atterrati in America e contenenti per l’appunto cadaveri di omuncoli. Allora inviai da New York una lettera al Direttore di quel settimanale, pregandolo di pubblicare il racconto della mia avventura la quale, se non altro, aveva il merito della priorità.
Quando due mesi più tardi tornai in Patria, andai a Milano e mi recai dal direttore de "L’Europeo". Mi fu detto che la cosa era interessante ma che per essere pubblicata era necessario che io fornissi delle "prove" (?!) sulla sua autenticità. Risposi che se quel mattino dell’agosto 1947 io avessi immaginato di incontrarmi con creature dell’altro mondo non avrei esitato un istante a portarmi dietro tutta una schiera di giornalisti, di cinematografari e (perché no?) anche una compagnia di soldati.
Per la storia, il giorno dopo, cioè il 15 agosto 1947, chiesi in paese se nessuno avesse notato qualche "aeroplano" il giorno prima. Due persone (un vecchio e un ragazzo) mi dissero, separatamente, di averne visti uno alle 8,30 e l’altro alle 10 (?): un "pallone rosso". Il primo stava seduto a prendere il sole sulla piazza del villaggio. Notò un palloncino rosso "scendere portato dal vento" dietro la montagna addossata al villaggio. Il ragazzo stava con sua madre e altra gente lavorando in un prato appena fuori del paese e notò un pallone rosso ("come quello delle fiere", disse lui), che saliva velocemente e spariva nel cielo limpido.

Questo è tutto quanto ho potuto raccogliere di "testimonianze locali". Forse potranno interessare al Direttore del sopraddetto settimanale.

Con ciò la mia storia è finita.

Aggiungo soltanto che sono stato profondamente disgustato della indegna "cagnara" che è stata fatta in America sulla faccenda dei dischi volanti e che ho seguito in ogni suo particolare dall’ottobre del 1947 al 1952. E il mio disgusto è finito col tramutarsi in amarezza qui in Europa, nel constatare l’enorme leggerezza con la quale si è considerata l'importante questione dei dischi. Dico "leggerezza" perché non ritengo neppure degni di considerazione gli "scherzi" e le mistificazioni fatti a solo titolo di lucro, di propaganda oppure per pura incoscienza.
E debbo anch’io finire questo breve e schematico resoconto con un avvertimento simile a quello con cui finisce il libro dell’americano D. E. Keyhoe "Flying Saucers From Outer Space" ("I dischi volanti vengono dallo spazio esterno"):
"Vi sono esseri intelligenti che giungono dalla spazio cosmico e da anni (e forse da secoli) ci osservano. Forse vi saranno esseri simili a noi. Altri potranno essere molto diversi da noi come aspetto "fisico" (io ne sono ben certo).
Noi dobbiamo, comunque, essere pronti ad incontrarci con essi e dimostrare che siamo "civili". Quando? Forse domani o forse fra due secoli. Noi non lo sappiamo. Ma è certo che dobbiamo dar loro, immediatamente al primo incontro, l’impressione che non siamo affatto loro nemici. Perché se da essi potremmo sicuramente apprendere cose che incrementerebbero le nostre conoscenze scientifiche, potremmo essere trattati alla stessa stregua di esseri inferiori o di selvaggi. E non dimentichiamo che le nostre "civilissime spedizioni" esplorative in Africa, in Australia, in Malesia e nell’Arizona, hanno risposto col piombo più micidiale alle povere frecce degli indigeni. Che cosa potrebbero rispondere gli "uomini dei dischi" alle nostre armi moderne? La misteriosa energia (magnetica?) che muove silenziosamente i loro apparecchi dovrebbe farci meditare".

R.L. Johannis

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